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Fotografia giapponese - Introduzione

La fotografia venne introdotta in Giappone a metà dell’Ottocento dai missionari occidentali.

La condizione feudale del Giappone si rifletté in una situazione di gap tecnologico e industriale di abissale entità anche presso le classi colte.

La condizione politica della nazione provocò una serie di pregiudizi intorno all’arte fotografica accusata di succhiare il sangue e di condurre alla morte i soggetti fotografati.

Solamente nel 1868 avvenne una svolta: un gruppo di soldati decise di farsi fotografare presso lo studio di Hikoma Ueno per lasciare un ricordo di sé ai parenti prima di partire per il fronte.

Con queste motivazioni nacquero i primi studi fotografici.

Sfortunatamente la stessa realtà economica non permise l’instaurarsi dell’industria fotografica in Giappone fino agli anni ’60 in cui parallelamente al boom economico ed industriale del paese la fotografia risentì di una forte spinta e si sviluppò anche grazie le ricerche che erano state compiute in ambito ottico.

Parlando del Giappone si è soliti sottolineare la capacità di conglobare in unità originale i variegati apporti provenienti dall’esterno.

Nel caso dell’espressione fotografica tale atteggiamento recettivo fu a lungo di sostanziale passività nel senso che i giapponesi assunsero le regole tecniche ed espressive che gli occidentali, plagiati da una tradizione pittorica, avevano stabilito per la fotografia.

In tal modo il pittorialismo di stampo francese e inglese fu il primo preciso filone su cui si inserirono anche i primi fotografi espressivi.

I fotografi giapponesi aderirono a tutte le correnti antirazionaliste che caratterizzarono gli anni Trenta in Europa in particolare al Dadaismo e al Surrealismo, tendenze che esaltavano il versante soggettivo.

L’atteggiamento giapponese nei confronti dell’uso e della pratica della fotografia è sempre stato abbastanza distante dall’equivoco realista che ha invece fondato per decenni le fortune in Occidente.

L’unica stagione felice del realismo nipponico coincise con gli anni dell’immediato dopoguerra (in Italia fu la stagione del Neorealismo) quando la tragedia della nazione assunse i caratteri del sublime e verté in maniera epica.

Per il resto la fotografia giapponese autenticamente tale è stata caratterizzata dalla presenza di un elemento intuitivo.

È inutile cercare nella fotografia nipponica il concetto di realtà compiuta, alla razionalizzazione della mentalità occidentale, gli orientali opposero i diritti della fantasia individuale, nei loro scatti ci sono elementi che suggeriscono eventi che stanno per compiersi.

Negli anni Settanta e Ottanta per questo motivo la fotografia giapponese e quella americana furono legate da un filone di comune ispirazione.

Il fotografo tese a proporre una propria personale e soggettiva visione legata ad un preciso momento ed ad una particolare condizione psicologica.

I fotografi nipponici manifestarono l’apoteosi del soggettivo: le immagini furono proposte come il risultato di un rapporto personale e soggettivo con esse.

Ogni avvenimento testimoniato dalla macchina assunse il valore di una testimonianza di sé, di un momento vissuto.

La fotografia si è conquistata spazio come mezzo che comunica il coinvolgimento diretto del fotografo con il soggetto e i suoi valori. – Shoji Yamagishi.

La fotografia giapponese ora ha messo le radici nel terreno della cultura tradizionale giapponese. – Shoji Yamagishi

I Giapponesi hanno tardato a comprendere il valore della fotografia sia nel campo sociale che in quello espressivo. Ma una volta convinti della possibilità si sono affacciati sulla scena mondiale con una straripante ricchezza di proposte.

La fotografia attualmente è una attività inserita nel tessuto sociale della nazione.

L’industria fotografica nipponica ha ora dimensioni imperiali e i suoi echi cominciano a giungere con frequenza sempre maggiore in Occidente.

Il Japanese look costantemente minaccia l’egemonia americana.


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